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Siamo tanti e non siamo mica tanto “atipici”

Siamo tanti e non siamo mica tanto “atipici”
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6 Gennaio 2011 - 00.05


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risparmiaredi Ettore Macchieraldo – Megachip.

Contributo al Manifesto del lavoro autonomo che verrà messo in scena alle 18.30 del giorno 12 gennaio 2011 in Triennale, a Milano.

L”Associazione Consulenti del Terziario Avanzato ha pubblicato un Manifesto per coalizzare i lavoratori della conoscenza.

Ma chi sono questi lavoratori?

«Elencare tutte le figure professionali che sono apparse sul mercato sarebbe troppo lungo; vediamo piuttosto i settori: la formazione, l”informatica, la consulenza di organizzazione, la grafica, l”editoria, il giornalismo, gli eventi, il turismo, la cinematografia, la finanza, il brokeraggio, l”immobiliare, la pubblicità, la comunicazione, il design, le ricerche di mercato. [.]


Quando queste attività vengono svolte da persone singole, da lavoratori indipendenti, per conto di Agenzie che lavorano per imprese private o P.A. come intermediarie, noi diciamo che si costituisce un universo del lavoro autonomo di seconda generazione» Risponde Sergio Bologna in un”intervista pubblicata sull”ultimo numero di «Una città».

Sono in corrispondenza con Sergio Bologna da anni e apprezzo molto il suo lavoro di ricerca, anzi di co-ricerca, sul lavoro autonomo.

Più di due anni lessi una sua intervista su “Una città“.Gli scrissi il pezzo che vi ripropongo. Allora, così come oggi, volevo contribuire all”emersione di questo importante settore del lavoro privo di identità e rappresentanza, allargandone l”orizzonte.

La mia esperienza lavorativa degli ultimi anni mi porta a sostenere che molti dei processi descritti nel Manifesto del lavoro autonomo riguardano anche settori non così avanzati come i lavoratori della conoscenza. Penso all”edilizia e all”agricoltura, e certamente anche l”artigianato, soprattutto nella sua accezione più recente e meno arcadica.

In edilizia la pratica del subappalto non è recente, e in agricoltura -, specie dalla riforma degli anni”50 – la piccola proprietà è la più diffusa. Si sa che in entrambi i settori certe forme di contratto nascondono poco piacevoli forme di coercizione e sfruttamento. Nell”edilizia il subappalto permette un sempre maggiore ricorso al caporalato e al lavoro nero. In agricoltura l”estrema frammentazione lascia alla grande distribuzione la possibilità di determinare i prezzi delle merci e così strozzare il piccolo contadino.

Il pezzo che vi sottoponiamo fu pubblicato dal sito del Forum Comunicazione Milano, Social Press. Proprio in questi giorni mi hanno comunicato che quel sito non sarà più consultabile. La riproposizione di questo articolo che venne pubblicato nel maggio del 2008 vuole anche essere un omaggio e un ringraziamento per il lavoro degli amici di quella redazione. Spero di rincontrarli in altre esperienze e percorsi.

Da allora la mia condizione personale così come quella di molti lavoratori autonomi e cambiata di molto.

Quello che spesso non viene raccontato è che, con l”aggravarsi della crisi e, quindi, il calo delle commesse e i mancati pagamenti, milioni di ”imprenditori” sono nelle mani delle banche. Al momento si rinvia sì l”esecuzione di more e ipoteche, ma di certo il coltello dalla parte del manico non è nelle nostre mani (ovvero dei debitori). Anche per questo è necessario coalizzarsi.

Infine un ultima nota sul sindacato. Proprio in questi mesi stiamo vivendo una ripresa di combattività e iniziativa da parte della Fiom. Come scrissi nel mio articolo di allora ritengo che il continuare a rappresentare e a considerare solo la tipicità dei contratti nazionali di lavoro, senza coalizzarsi e rapportarsi con le altre forme di lavoro che sempre più si diffondevano, sia una grave responsabilità dei sindacati. Che sia l”occasione per riscattarsi?


Atipico a Chi?

di Ettore Macchieraldo – 12 maggio 2008

Socialpress, sito del Forum comunicazione Milano

Che senso ha continuare a dividere le forme di lavoro in tipiche e atipiche, la precarizzazione è molto più generalizzata e coinvolge anche chi ha contratti a tempo indeterminato.

Sul numero di «Una città» di aprile ho trovato un”interessante discussione tra alcuni sindacalisti e alcuni esponenti di Acta (Associazione Consulenti Terziario Avanzato). «Una città» è un mensile che da diversi anni fa delle interviste e delle discussioni un metodo per indagare ciò che potrebbe aggiornare le categorie di una logora sinistra. Trovo molto interessante il dibattito sul lavoro di quest”ultimo numero, per quanto vi sia un vizio sostanziale.

Per mia esperienza di lavoro – sono dipendente e amministratore di una piccola cooperativa che lavora nell”edilizia – la commistione tra forme di lavoro tipiche (diciamo contratti a tempo indeterminato) e condizioni atipiche (forme di lavoro autonomo al di fuori degli ordini professionali) è molto più generalizzata di quanto si creda. E la ragione sta nella diffusione della microimpresa.

Chi, come me, nelle indagini sociologiche risulta come dipendente a tempo indeterminato, in realtà è determinatissimo da congiunture di mercato, errori di impresa e, soprattutto, meccanismi gerarchici di subappalto.

Sono stufo di sentir parlare di tipicità o atipicità, di stabilità o precarietà. Parliamo, invece, di condizioni di vita, di diritti di cittadinanza, di nuove forme di tutela, magari maggiormente legate ai diritti della persona piuttosto che allo status lavorativo o al paese in cui si è nati.

Mi convince molto di più la differenziazione che compie Anna Soru durante la discussione tra chi è pagato sulla prestazione e chi è retribuito rispetto al tempo di lavoro.

E qui c”è da svelare che la complicità tra titolari e dipendenti di microimprese è molto alta. Quando ricevi una commessa e dei tempi di consegna (magari con penali) non badi più alle 8 ore di lavoro e alle pause, ti crucci solo di riuscir a finire in tempo. E siccome il problema non è solo del supposto padrone (e già perché non credo proprio che il titolare di una piccola impresa si possa considerare un padrone, al limite uno che sta un po” più in alto nella scala gerarchica e nella retribuzione) ma è anche dei dipendenti che da quella commessa dipendono per regolarità e quantità di stipendio.

Insomma è molto alta quella dualità di cui parla Andrea Fumagalli nel suo intervento sulla May day parade, ovvero quella tra forma gerarchica del lavoro e necessità di cooperazione da parte di tutti i soggetti coinvolti nel processo. E questa dualità incide fortemente anche nella formazione di opinione da parte del lavoratore, almeno per quanto riguarda quelli che conosco io.

E qui sta la difficoltà di trasformare ”questa realtà plurima in un soggetto sociale e politico. Finché si rimarrà imbrigliati nella schema del fordismo, ovvero nella dualità padrone- operaio, senza aggiornare confini di classe, forme di lotta e loro rappresentanze sarà difficile sperare in una ripresa del movimento operaio, in un inversione della degenerazione di questa nostra società.

Senza contare la necessità di mettere in discussione il mito produttivista che il fordismo ha lasciato in eredità, creando delle notevoli distorsioni e difformità di orari di lavoro.

Ci dicono che il turn over è alto, anche chi ha un contratto di lavoro indeterminato cambia lavoro spesso e, si suppone, con periodi di inattività. Il luogo di lavoro non può essere più così determinante a definire le identità, o, se lo è, si spiega come mai siamo così tanto a disagio con noi stessi.

Insomma hanno ragione i partecipanti alla discussione l”asse è da spostare dalla tutela del posto di lavoro (il tabù del licenziamento), alla definizione dei diritti di cittadinanza.

Un”ultima nota sulla battaglia in difesa dell”articolo 18. Ve ne ricordate? Quella è la norma dello Statuto dei lavoratori che tutela dal licenziamento. Qualche anno fa siamo scesi in piazza in centinaia di migliaia per difenderla. Anche noi atipici. Non credo fosse una battaglia di retroguardia. Piuttosto arrivava con almeno 10 anni di ritardo. E, soprattutto, non è stata colta l”occasione per rilanciarla, per ragionare sull”estensione di diritti a tutti. Si è deciso per l” arroccamento. E questa è una responsabilità grave, anzi gravissima, del sindacato.

Ho la tessera della Fillea Cgil da due anni. Mi mandano un bollettino, vado da loro perché spendo di meno per fare la dichiarazione dei redditi, pago la tessera. Insomma non mi sembra di stare dentro un”organizzazione, forse mi coinvolgerebbe di più la raccolta punti al supermercato (se la facessi).

 

 

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